(tratto dal libro di Angelo “Raccontami una storia”)

1. Catives con rejon

...Scoita che reveddoz del diaol che le fa chestes “ostce”! Somea che le volesse avisar duc i animai del bosc che sion chigiò!¯ Questo mi ripeteva mio padre nelle nostre numerose uscite a caccia, quando sentiva gracchiare animatamente le gazze (nocciolaie): era fermamente convinto che “quelle mostre” avvistandoci dall’alto avvisassero tutti gli animali del nostro arrivo.
In realtà tale ipotesi non è suffragata da una vera e propria casistica in nessun manuale di caccia, ma in certe occasioni non così rare, quando vagavo silenzioso nel bosco e sentivo le nocciolaie gracchiare spaventate ed agitate, sentivo subito dopo braccare il capriolo o qualche animale in fuga.
Ma se è vero che tale comportamento delle nocciolaie è ancora tutto da verificare, posso affermare senza bisogno di alcuna verifica, l’ho provato sulla mia pelle, esiste un altro animale molto più piccolo che almeno una volta ha aiutato il gran vecchio maschio di capriolo a mettersi in salvo!
Era da tanto che lo seguivo, ci conoscevamo da più anni, lo vedevo spesso, dalla finestra della mia camera, sotto il rifugio e veniva perfino, come per beffarmi, a bere alla fontana a meno di quindici metri da casa.
Lo vedevo spesso, ma mai nei momenti giusti, sempre prima dell’apertura della caccia ed in qualche occasione nelle giornate di silenzio venatorio, poi spariva e più mi intestardivo a seguirlo e meno ne vedevo traccia.
Oramai c’era tra noi quasi una piacevole e leale sfida.
Ogni anno che passava lo vedevo sempre più bello e con corna sempre più lunghe ma sempre più vivo!
Un martedì, durante il periodo di caccia, lo rividi sul ghiaione del Sass da Mesdì che dista più di ottocento metri in linea d’aria dal rifugio.
Non poteva essere che lui, lo osservai a lungo con il cannocchiale, ben posato sul davanzale della finestra: era lui, ne ero certo!
L’indomani, mercoledì, la nostra, non forse totalmente alla pari, ma leale sfida, si poteva riaprire.
All’alba ero lì, in fondo al ghiaione, era solo questione di pazienza, si sarebbe fatto vivo di nuovo, ne ero certo, ma ogni tanto la pazienza a caccia non basta, ci vuole anche un po’ di fortuna ed un gran temporale all’alba non è certo l’ideale per cacciare.
Resistevo da molto più di un’ora sotto il diluvio, la mantella era zuppa già da molto ed il pino cembro che mi era parso un riparo ideale, mi stava tradendo.
Non ce la facevo più, dovevo abbandonare la posta e mettermi in cammino, almeno per riscaldarmi un po’.
La camminata non fu poi molto lunga e nel frattempo la pioggia lasciò spazio ad ampi spazi di sereno e di sole.
Chi va a caccia sa che quei momenti sono ideali per vedere o rivedere della selvaggina.
Oramai mi trovavo lontano dalla postazione, ero su un ripido costone di fronte al famoso ghiaione e visto il cambiamento del tempo decisi di ritornare alla mia postazione iniziale, ma ecco che tra gli alberi lo vidi: era allo stesso posto del giorno prima, bello, di traverso…. A questo punto dovevo rischiare la fucilata da lì, era un tiro orizzontale, fattibile, più o meno duecento metri.
Mi guardai intorno cercando dove potermi appoggiare per sparare dall’altra parte della vallata, visto che ero su un ripido costone.
La mia fortuna, come al solito, mi fu amica: sotto di me c’era un enorme formicaio che sembrava fatto apposta per poggiare lo zaino e per sparare in modo fermo.
In due balzi lo raggiunsi e mi preparai ringraziando San Hubertus, nostro protettore, per quel formicaio fortunatamente disabitato.
Posizione ideale ed eccolo, era lui, lo avevo già inquadrato nel cannocchiale, quando sparì dietro un piccolo, storto e stentato abete rosso.
® Doveva pur uscire! ¯ Mi dissi, non avevo però molti altri metri di visuale per poter sparare e decisi di aspettarlo: finalmente era giunto il momento tanto atteso da anni, ero gratificato e soddisfatto di non aver sparato in momenti non corretti, ed ora, a distanza di anni, lo posso anche dire, ero stato tentato in quella notte di luna piena!
Intanto però la mia tanto attesa preda non voleva uscire da dietro quell’albero ed io senza levare l’occhio dal cannocchiale, mi sistemavo ancora meglio su quella fortunata e morbida postazione.
Una formica su di un braccio non farà mai staccare l’occhio dal cannocchiale che inquadra un gran capriolo, ma quella incominciò a chiamare tutte le altre, al punto che mi resi conto che il formicaio non era deserto, ma era un’enorme e vissuta metropoli, oramai, colpa anche dell’essermi spostato più volte e di aver in parte distrutto la loro casa, incominciai ad essere attaccato.
Le formiche rosse, almeno quelle, non pizzicano molto, ti chiudono la pelle tra le loro forzute ganasce e non fanno troppo male, ma è sempre spontaneo scacciarle, e figuriamoci se poi sei a  pochi centimetri e ti sputano addosso tutto quell’acido formico in viso: come si può resistere?
Oramai ero invaso, mi entravano da tutte le parti: erano state chiamate proprio tutte, anche le “cantiniere”, ma non potevo mollare….. se fosse uscito da dietro quell’albero…. Due passi, solo due passi e non l’avrei più visto!
Un minuto di attesa può essere poco, ma, in quell’occasione, era interminabile: mi entravano dappertutto, nelle maniche, tra i capelli, sotto i pantaloni, forse erano già centinaia!
®  Conto fino a cinque – mi dissi – e se esce da dietro quel maledetto albero bene, se no mollo! ¯
Al sette con un balzo mollai tutto e mi alzai in piedi.
Abbandonai fucile, cannocchiale e zaino sul formicaio ed incominciai a spogliarmi più veloce che se fossi stato in compagnia di una splendida donna!
Ero già rimasto in mutande e scavavo anche sotto alla ricerca di qualche altra intrusa, quando, mentre pensavo di essere salvo, alzai gli occhi ed eccolo lì tranquillo, bello, illuminato dal sole, rosso e fermo di traverso, poi fece con calma un altro passo e non lo rividi più, anzi mai più! 
Non mi restò altro da fare che “sformicarmi” fucile e vestiti e tornare a casa sconsolato.
Quando lo raccontai a mia madre, non mi credette.
Dovetti scavare ancora sotto la canottiera per trovare ancora qualche ormai solitaria formica e fargliela vedere: ® Questa è proprio bella! ¯ Disse e si fece una gran bella risata!...

Angel de Larezila

2. Quell’esperto sì…

...Quel giorno ero orgoglioso che mi accompagnasse proprio quell’esperto, infatti era uno dei primi cacciatori ad aver acquisito tale appellativo, un animale raro a quei tempi, e lui lo sapeva e in quella privilegiata situazione ci sguazzava ben bene dentro.
Avevo dovuto fare la fila per poter fare un’uscita di caccia in sua compagnia e finalmente poter prelevare quella femmina intermedia di camoscio che mi era stata assegnata e che solo con l’accompagnamento di un esperto poteva essere cacciata.
Il suo: ®Sì, domani si può fare!¯ mi trovò impreparato al punto che mi ritrovai senza quelle buone cose da mangiare che di solito rimpinguano il mio zaino, infatti i negozi avevano già chiuso ma avrei risolto il problema dal momento che avevo superato in passato situazioni peggiori.
Per me uscire con quell’esperto era un modo per raffinarmi ulteriormente sulle arti venatorie ed acquisire ancora di più in esperienza e scaltrezza ed anche se il bosco per me non aveva molti segreti e lui aveva alle spalle meno anni di caccia rispetto a me, era comunque un esperto, uno dei primi esperti e questo faceva la differenza, la grande differenza, e questo mi avrebbe potuto dare tanto…
Riuscii ad individuare un gruppo di camosci tra le rocce, non erano molto lontani.
Noi eravamo ancora in mezzo al bosco e quindi non visibili, grazie a quegli alberi a fronda bassa che facevano da muro tra noi e loro e avevamo tutto i tempo di osservarli e valutarli con i nostri cannocchiali ben  posati sullo zaino. A onor di cronaca, in realtà era solo il mio posato sul vecchio zaino, il suo era ben fermo su un cavalletto: quella fu la prima volta che vidi un cavalletto usato per cacciare… in fondo anche quello faceva la differenza tra un cacciatore normale e un esperto!
La lezione poteva incominciare: ®Vedi, - mi disse - adesso ti spiego, prima si contano e sono dodici, o no? ¯ Mi chiese.
Io confermai erano effettivamente dodici.
®Bene, adesso insieme contiamo i piccoli, uno… due… tre… quattro, se sono quattro, avremo anche quattro femmine e ci sono, le vedi in alto, sono tutte insieme? ¯
®Le femmine, - continuò - quando sono con i piccoli sono più attente e guardinghe, si girano spesso a guardare i loro piccoli e poi se osservi con attenzione hanno le mammelle gonfie e poi guarda: le corna sono lunghe, sottili e poco ricurve. Quello più in là è un maschio, ti accorgi che è un maschio perché è molto più tozzo e poi le corna sono più grosse e guarda il petto com’è largo, pieno; pensa a noi umani e tutto diventerà più facile infatti la donna è generalmente più esile rispetto all’uomo, ci devi fare l’occhio, un giorno quando diventerai esperto anche tu, tutto ti sembrerà più semplice e veloce individuare l’animale giusto facendo questi paragoni.¯
Ero affascinato da quella lezione, vedevo tutto quello che mi diceva come in un film, solo le mammelle gonfie di latte mi sfuggivano e pensando al petto sempre più largo e pieno del maschio, mi si confondevano le idee ricordando  la mia ex fidanzata che mi aveva appena lasciato per un altro… lei aveva  il petto molto più pieno e… gonfio del mio!
®Li vedi i due Jarling più in basso? ¯ ®Sì. ¯ Risposi.
®Uno è un maschio e uno è femmina! ¯
Quelli sì che li vedevo, era molto più semplice ma mi era un po’ più difficile capire qual’era il maschio e la femmina e lui con maestria me lo insegnò.
Era molto più bello andare a caccia con un esperto, pensai, era come andare a visitare una mostra di quadri con un maestro d’arte o bere un bicchiere di vino in compagnia di un sommelier: i sapori e i profumi del bosco li sentivo persino diversi, stavo vivendo una grande e nuova esperienza.
Mi sentivo fortunato nel poter stare con lui, anche perché era considerato il migliore esperto della zona.
®Ora concludiamo - mi disse - quattro piccoli con le madri e sono otto, due Jarling e un maschio, undici, ne manca uno ed è quello più in alto di tutti. Dimmi tu che animale è.¯ Mi disse con fare magnanimo.
Guardai bene quel camoscio e secondo me era una femmina sola e osai dirlo: ®È una femmina giovane e sola, quella giusta, quella nostra! ¯
Dopo un lungo silenzio, per me eterno, il maestro profetò: ® Bravo, è una femmina ed è sola, hai buon occhio e un giorno se ti impegnerai con passione, diventerai  un buon esperto. Direi che puoi sparare, anzi ti dico anche quanti metri sono… - ed estrasse un'altra diavoleria, il telemetro che non avevo mai visto… - Centocinquanta metri, un buon tiro! Prendi tempo e non sbagliare! ¯
Il colpo rimbombò per tutta la montagna e non dimenticherò mai la sua esclamazione che, per molto tempo, mi gratificò in un modo quasi insano: ®L’hai fulminata, così si deve sparare! Complimenti, verrò ancora con te! ¯
Ero felice.
L’avvicinamento fu veloce infatti per nostra fortuna, il camoscio era rotolato per un lungo tratto su un ghiaione avvicinandosi alla nostra posizione.
Come un cane da sangue arrivai per primo sull’animale, era  proprio bella quella femmina, con quel pelo lucido e folto sulla schiena in cui vedevo scomparire le mie mani. Poi  controllai la fucilata: perfetta era dire poco!
L’esperto mi raggiunse, la guardò, controllò le corna e la fucilata e si complimentò con un possente “Waldmannheil”, un’espressione per complimentarsi che non avevo mai sentito pur conoscendo il tedesco.
Mi attraeva quel pelo, mi dava sicurezza, mi riscaldava le mani, la girai e la lisciai ancora sul pelo ancora più morbido e chiaro  del ventre, quasi per comporla meglio, per rispetto alla sua morte.
Allungai le mani verso il basso, la mia mano corse veloce ma si fermò in cose che non ci dovevano essere.
® Ma è un maschio, urlai! ¯ L’esperto sbiancò, levò le mie mani e pose le sue, poi non disse più una parola, dovetti prendere io la situazione in mano poiché lui era come se non esistesse più, come sprofondato in quelle millenarie ghiaie.
® No “panic”! – Esordii, - risolvo io il problema! Non mortificarti, tutti possono sbagliare, anche un grande esperto! ¯
Risolsi nel modo più adeguato il problema.
Come?
Il come, è già un'altra storia!...

Angel de Larezila

3. Solo nella nebbia

...Dei due momenti che preferisco della Messa, il primo è quando ci si scambia il segno della pace, mio figlio, di pochi anni, parte e dà la mano a tutti nel circondario di molti metri, mi diverte seguirlo con lo sguardo, questo mi fa capire che avrà buone possibilità di non sentirsi solo.
Il secondo momento è la predica: probabilmente siamo pochi ad apprezzare quelle poche riflessioni proposte dal pulpito, ma le prediche di quel parroco sapevano di nuovo, non sentivi mai parlare dei castighi divini, delle fiamme dell’inferno o dei tormenti che ti dovrebbero togliere il sonno se non hai la coscienza a posto!
Non ho mai pensato che il momento della predica fosse troppo lungo, il resto della Messa forse sì, così ripetitivo, da sempre le stesse parole, gli stessi gesti, potrei chiudere gli occhi e ripeterli mentalmente, forse sbaglierei di poco, qualche battuta o qualche parola ma la potrei recitare io la Messa, ma la predica quella no, ed è dalla predica che capisci se quell’uomo che hai davanti ed ascolti, sa farti meditare e se uscirai da quella chiesa un po’ più ricco e con un pensiero nuovo in più.
Anche se uno non crede o crede poco alla religione, non fa mai male sentirsi dire che la malizia non uccide l’empio e che il bene, invece, ti apre e ti gratifica.
Dover stare in un posto ad ascoltare cose che sai già, è comunque un’occasione in cui puoi usufruire di quei minuti e non perderli viaggiando con la mente, anche se in chiesa non si dovrebbe far scappare la mente a cose diverse dal pensiero della salvezza dell’anima e del corpo.
Esistono altri momenti simili in cui rimani lì, in qualche posto, e non puoi fare niente, solo aspettare che il tempo passi e ti ritrovi tutto solo ma in piacevole raccoglimento con te stesso: a caccia, quando sono in mezzo alla nebbia talmente spessa da vedere confuso anche quel grande pino cembro a pochi metri, non sento di perdere del tempo.
Quella mattina o quella sera ti rendi subito conto che per te la caccia è finita, ma stai lì fermo comunque, sperando che un soffio forte di vento sposti quel muro bianco aprendoti quella grande radura che ti sta davanti così da darti la possibilità di vedere l’animale da tanto tempo così ambito ma poche volte visto.
Eppure, infondo, ti accorgi che anche quello non è così importante, perché ci vivi bene in quel mondo ovattato, finalmente tutto tuo, stai lì e aspetti…
Potresti alzarti e cambiare posto ma quasi ti mancano le forze e insisti a stare lì fermo, ben nascosto da tutto e da tutti, al punto che ti piace.
Non guardi lontano, non lo puoi fare, quella materia quasi gelatinosa non te lo permette e allora scopri le cose che ti stanno vicine, quelle che hai sotto gli occhi, sotto i piedi, mai viste prima per lo sguardo sempre troppo alto in cerca di prede.
Allora ti soffermi ad ammirare il colore dei licheni o del muschio arrampicato sul quel tronco marcio per terra da tanti anni; quella riga di formiche rosse che hai sotto le scarpe così indaffarate in uno splendido ordinato caos; osservi uno scoiatolo che ti passa vicino, curioso, e tu aspetti fermo per vedere quanto osa avvicinarsi; guardi una nocciolaia che si pulisce il becco su un ramo a pochi metri dai tuoi occhi, così elegante, vestita di bianco e nero; un topo che fruga tra l’erba secca e alta, per fare cantina in previsione del lungo inverno che lo aspetta… Cose, queste, forse nuove per te.
Tutto ciò ti diverte o meglio ti fa sentire bene, ti sembra di essere dentro una di quelle bocce di cristallo che, se le giri, cade la neve ed imbianca tutte le cose che stanno attorno e le rimette sempre tutte al loro posto.
Quando hai finito di viaggiare con gli occhi su quegli esseri viventi e niente ti è più segreto di quello che ti sta attorno, allora viaggi dentro di te pensando a cose tue, personali, inviolabili per altri e forse anche per te stesso, cose che nessuno deve mai sapere per non essere più fragile e attaccabile dalle cattiverie umane.
Sei talmente avvolto nella nebbia che ti senti protetto ed eviti di guardare avanti, alle cose terrene e alle vicissitudini della vita.
Senti dei brividi lungo la schiena e dai la colpa al freddo o all’umidità che ti entra sotto quei panni di lana cotta di tutti i verdi possibili, ma forse non è quello, forse è il tuo viaggio interiore che ti fa rabbrividire, le sconfitte, gli errori e tutto quello che avresti potuto fare e non hai fatto; forse rabbrividisci per gli anni che passano e perché ti accorgi, con estrema malinconia, che i programmi che avevi fatto a lunga scadenza non li potrai più ultimare, già troppo vecchio!
Non guardi più in giro, abbassi la testa, tanto non c’è più niente da vedere, ti arrotoli su te stesso, mentre l’aria gelida ti entra tra il collo e il colletto della camicia e nemmeno quel caldo colbacco di volpe rossa te la può fermare.
Quando le spalle cominciano a farti male e ti accorgi che quella posizione è divenuta terribilmente scomoda, alzi la testa, sconsolato, e se sei fortunato, e io lo sono, ti accorgi che quell’aria che ti entrava sotto il collo non era solo un soffio, ma parte di quel vento del nord che serviva a portare la tua nebbia in un altro posto, insieme ai tuoi malinconici pensieri.
Quella larga radura era, già da molto, illuminata da un sole tenue serale e non te ne eri ancora accorto, troppo ripiegato su te stesso, e allora ricominci a guardare lontano in cerca di quel capriolo che sai che non vedrai più e alla vita che comunque, a parte tutto, continua.
Guardavo, senza convinzione, l’ampia fratta che mi si parava davanti e pensavo che se fossi stato un vecchio capriolo o cervo avrei scelto sicuramente quel solitario e impervio posto… Lo scrutavo metro per metro, a occhio nudo, in fondo la distanza era poca e la nebbia era sparita, anche se di spazi nudi da alberi e cespugli ce n’erano purtroppo pochi… Il bosco si stava riprendendo lentamente tutta la montagna!
Passarono pochi minuti e proprio sotto di me, dall’altra parte della ripida valle, vidi degli alti ontani che si muovevano in modo strano, quasi si piegavano a terra come in una giornata di terribile bufera ma vento non ce n’era, tutto era calmo ed anche quella brezza che aveva levato la nebbia dai miei occhi si era calmata e allora capii: solo un cervo poteva imprimere a degli ontani, così cresciuti, tanto sconquasso, sì solo un cervo!
Mi spostai di un paio di metri verso sinistra per avere migliore visuale, i rami continuavano a muoversi, ma non vidi ancora nessun animale, il verde delle foglie faceva scudo a tutto.
Un cervo in quella zona, pensai, è molto strano, troppe rocce, troppi ghiaioni troppo ripidi, forse un vecchio camoscio, ma mai un cervo.
L’attesa non fu lunga, gli ontani si muovevano sempre più e sempre più in avanti, ancora pochi metri e l’animale, camoscio o cervo che fosse, si sarebbe presentato nel ghiaione.
Presi il binocolo e lo puntai… Altro che caccia finita per colpa della nebbia, mi dissi, un bosco così, il mio bosco, non mi aveva mai deluso, pensavo che non avesse segreti ma, anche quella volta dovetti ricredermi.
Dopo non molto, la prima cosa che vidi furono due lunghe corna che martoriavano ancora di più quegli arbusti.
Era lui, il re della montagna, il fantasma del bosco che tante volte avevo già visto sparire in un battito di ciglia.
Continuavo a chiedermi come avesse fatto ad arrivare lì, conoscevo quel posto, e per me era un mistero come faceva a stare in piedi.
Qualche anno prima avevo colpito un capriolo proprio lì, a pochi metri da quell’ultima roccia, e proprio per il terreno così ripido, avevo dovuto calarmi fino nel torrente per recuperarlo, ricordo ancora la fatica e per fortuna che avevo la buona regola di portarmi sempre un lungo pezzo di corda, corda che già tante volte mi aveva dato la possibilità di tornarmene a casa sano e salvo.
Fui veloce a posare lo zaino e a posizionare quel vecchio fucile, compagno di mille avventure, un fucile modesto, a un colpo singolo, solo secondo, dopo un buon arco e frecce, nella scala delle armi più pericolose.
Di fucili ne ho altri e sicuramente molto più precisi e potenti, ma solo lui viene a caccia con me, mi sento quasi un po’ più a posto con la coscienza, in questa battaglia, molte volte impari, fra cacciatore e preda.
Quei minuti d’attesa erano eterni, era sempre lì fermo a grattarsi su quegli ontani, non voleva uscire e non voleva presentarmi il petto.
Ero pronto, calmo, tranquillo… tanti anni di caccia almeno a quello mi erano serviti!
“Ancora un passo, dai, ancora uno!” Lo sollecitai a bassa voce…
Il rumore della fucilata non lo sentii nemmeno, troppo concentrato, lo vidi solo alzarsi sulle zampe posteriori, girarsi e fuggire… E poi più niente!
Ricaricai velocemente il fucile, ma avevo capito, già prima di sparare, che non sarebbe servito, avevo avuto un’unica possibilità, un solo colpo, per quel cervo.
Rimasi fermo per molti minuti in attesa, poi mi alzai, zaino in spalla, presi fucile e bastone e mi avviai, cercando di non scivolare.
Per arrivare al letto di caduta sarei dovuto arrivare fino a un vecchio sentiero di guerra, rubato alla marcia roccia, e poi fare un ampio giro.
Mi spostavo lentamente, pensando alla fucilata, alla nebbia e a come il bosco ti fa vivere degli attimi irripetibili, a come si era comportato quel cervo dopo la fucilata e a come avrei fatto, ammesso che lo avessi centrato, a recuperarlo.
Arrivato dall’altra parte della valle, incominciai a scendere per il ripido crinale, ponendo molta attenzione a dove mettevo i piedi; lo zaino e ancor di più il fucile mi erano d’impaccio, ma non li potevo e volevo abbandonare.
Fu quando mi sporsi da un’alta roccia e vidi una macchia rossa tra i rami che il cuore m’incominciò a battere forte e capii che era lì: la fucilata era stata giusta! Abbandonai il fucile che non mi aveva tradito per l’ennesima volta, e così libero mi fu più facile scendere tra quelle rocce.
La legge della sopravvivenza è forte per noi come per gli animali e questo mi fece prendere  tempo: se scivolavo e mi fossi ferito gravemente nessuno, in quel punto, mi avrebbe cercato anche perché non potevo avvertire nessuno… Odio quelle diavolerie moderne come i telefonini, mi sembra quasi che mi rubino, con le loro onde, parte della mia avventura!
E così riflettevo che nemmeno i miei amici e colleghi del soccorso alpino sarebbero riusciti a trovarmi, senza un minimo suggerimento, o forse sì, ma solo dopo giorni, guardando il volo circolare, silenzioso e inutile dei corvi imperiali!
L’avvicinamento al cervo fu lungo e intanto il tempo passava, il sole era già da molto tramontato.
Un po’ la fretta e un po’ l’ansia di arrivare all’animale mi fecero decidere di non usare la corda; scivolai un paio di volte e dovetti attaccarmi velocemente a qualche ramo e a qualche roccia sporgente, e a quel punto, guardandomi le mani sanguinanti, capii che la corda mi era indispensabile.
Quando arrivai a pochi metri, lo vidi: era disteso in un modo strano tra due abeti e, sotto il corpo, una secca stanga di abete messa di traverso l’aveva fortunatamente fermato, e ancora più sotto, a due metri il vuoto, un lungo salto di nera roccia e poi il torrente.
Mi avvicinai fino a toccarlo, gli passai la mano tra il pelo ancora caldo, presi un corno in mano, gli spostai un po’ la testa e rimasi così fermo per molti minuti ad ammirarlo, era proprio una bella bestia a dieci punte… Un vecchio cervo e un vecchio cacciatore… Questo, si sarebbe potuto dire vedendoci, e almeno in quello eravamo alla pari!
Mi piaceva stare lì fermo ad ammirarlo in silenzio, in quella luce sempre più scura che ci avvolgeva.
Per l’ennesima volta mi chiesi perché andavo a caccia, perché sparare, perché quei battiti di cuore così forti, io che avevo vissuto, in giro per il mondo, mille avventure di tutti i generi, e mi ritrovavo ancora a tu per tu con una nuova preda e il cuore in tumulto.
La risposta mi venne veloce anche perché era sempre quella e sempre la stessa: sono un animale anch’io, un carnivoro, un predatore, tutti i miei avi erano cacciatori e con le loro storie mi hanno passato la loro passione e forse anche i loro geni; non cerco nemmeno i perché del mio andare a caccia, ho paura di trovarli e mi accontento di pensare che è  stato sempre cosi.
Strappai un ramo di ginepro e glielo misi in bocca, ripetendo quell’arcaico rito dell’ultimo pasto che tante volte avevo visto fare da mio padre, forse nel cercare un rapporto più intimo con l’animale, un gesto, questo, di totale ammirazione e rispetto per un essere che è riuscito a vivere così a lungo sempre braccato guardandosi le spalle da tipi come me, o forse, per sua scelta, per non aver tentato l’ultima fuga, ormai troppo stanco e vecchio, esattamente come mi sentivo io, pochi minuti prima, avvolto dalla nebbia.
A quel punto, però, dovevo smetterla con tutte le mie riflessioni, dovevo scuotermi da quel torpore, in quella profonda valle il buio mi avrebbe avvolto velocemente, dovevo sbrigarmi a pulirlo dalle interiora, ma non lo potevo muovere, se la fine stanga che lo teneva si fosse spezzata la caduta fino nel torrente sarebbe stata inevitabile.
Recuperai la corda che mi era stata tanto utile e la assicurai strettamente a una robusta radice.
Oramai non poteva più cadere rovinosamente nel vuoto e così levai la secca stanga e l’animale scivolo giù nel ripido pendio con le zampe posteriori penzoloni.
Ora mi potevo avvicinare, sempre legato, e con esperta manovra incidere il basso ventre.
Le mosse furono veloci, il buio mi aveva raggiunto, dovevo finire rapidamente e poi salire fino al sentiero, era ormai troppo pericoloso ritardare ancora.
Tutto filò liscio, i movimenti erano impacciati per colpa della corda, mai in vita mia mi ero dovuto assicurare a una corda per pulire un selvatico!
Veloce infilai cuore, fegato e coltello nello zaino, mi slegai e mi avviai verso l’alto.
L’ascesa fu più veloce, del resto, che sulle rocce la salita sia più semplice della discesa, è ben noto. Recuperai il fucile e a notte mi diressi verso casa. Il buio era totale, non avevo infilato il frontalino nello zaino, ma oramai ero nel sentiero, sentiero e zona che conoscevo a menadito, del resto non era la prima volta che mi accadeva e un cacciatore deve saper convivere con il buio per mille motivi, e a maggior ragione per qualche ultima e disgraziata fucilata…
Arrivai al rifugio ereditato dai miei avi, stanco e sudato, ancora prima di cambiarmi, accesi subito il fuoco nel caminetto, mi riscaldai una minestra d’orzo, versai una birra e, sfinito, mi buttai sulla poltrona.
Pensai all’indomani e a come avrei potuto recuperare l‘animale, forse il modo più semplice era tagliarlo in quattro pesanti pezzi e, con l’aiuto di forzuti amici, portarlo fino al più comodo accesso, ma lo scartai, non mi andava di squartare un cervo in modo rozzo e maldestro, così, nel bosco, non era né dignitoso né tantomeno etico… Avrei trovato un’altra soluzione e, mentre cominciavo finalmente a rilassarmi, rividi mentalmente tutta la caccia di quel lungo pomeriggio, come in un film e mi dissi che non avrebbe potuto esserci regia migliore: tutto era andato perfettamente come in una collaudata recita.
Ripensai alla schioppettata, alla mia discesa troppo rischiosa senza le corde e pensai che mi era stato utile essere da decine di anni nel soccorso alpino e allora perché non loro, avevamo fatto tante manovre simulate, avevamo recuperato di tutto di più, con corde e argani, perché non recuperare un cervo?
Chiamai il capo del soccorso e spiegai che dovevamo fare un recupero all’indomani in una zona impervia, lo sentii preoccupato, ma lo riassicurai subito che non c’era fretta, oramai era morto, non dovevamo correre come il solito, ma questo non lo tranquillizzò e mi chiese spiegazioni.
“Non è una persona è un cervo, - gli dissi quasi a bassa voce, - ho bisogno di voi, almeno di quattro persone.”
Seguì un silenzio, poi, molto più rilassato, mi disse: “Va bene, ci sentiamo domani, sarà un’ottima manovra di allenamento”.
La notte fu interminabile, ripensai a lungo su come fare il recupero: una teleferica da una valle all’altra o un recupero lento dall’alto con molte corde o altro, non ne avevo idea ma di sicuro non sarebbe stata una cosa facile.
L’indomani il capo mi telefonò presto, lui sì aveva esperienza e mi disse che era l’occasione giusta per collaudare quel piccolo verricello a motore, trasportabile, appena acquistato dalla squadra.
Era un’ottima idea, avremmo potuto allungare il cavo d’acciaio con qualche nostra corda per i circa duecento metri del recupero.
Dopo meno di un’ora eravamo già che approntavamo il fissaggio dell’argano a motore a un giovane larice e non solo, due di noi si attaccarono al filo per sfilarlo, scendendo verso il basso.
Finito il filo d’acciaio, attaccammo una corda da roccia, quella più lunga in dotazione, e, poco dopo eravamo tutti lì, vicino al cervo, affascinati e muti: era una bellissima bestia e molto pesante, sapevamo che non sarebbe stato facile recuperarlo.
Tutto era pronto, il cervo era fissato con una corda nei tendini delle zampe posteriori, bastava mandare un ordine al manovratore in alto, per il recupero.
Il capo iniziò la manovra, il cervo si girò verso l’alto e incominciò subito a salire, ebbi appena il tempo di recidere la corda che lo teneva alla radice.
Tutto filava liscio e senza intoppi e non più di mezz’ora dopo il cervo era sul sentiero, già slegato e pronto per essere trascinato al fuoristrada.
Eravamo tutti intorno ad ammirarlo, le corna erano lunghe e con i pugnali rivolti verso l’alto.
In quel momento, non so come accadde, forse fui urtato, ma mi sbilanciai in avanti verso le corna appuntite e quando mi rialzai, mi accorsi subito, non per il dolore ma per il sangue che mi usciva copioso, che uno dei due pugnali mi si era infilato nella gamba, poco sotto il ginocchio.
Mi entrò profondo, senza sforzo nella carne, sporcandosi questa volta con il mio sangue, ma non mi scomposi, non imprecai, infondo, pensandoci bene, era giusto che un cervo così mi lasciasse un segno di giusta vendetta.
Zoppicai molto per arrivare all’auto e fui di poco aiuto ai miei compagni nel trascinare l’animale.
Caricatolo in macchina, dopo pochi minuti eravamo già al rifugio.  Lo scaricammo nel vecchio fienile e con quel metodo che da sempre da meraviglia, due legni e un pezzo di corda, lo alzai da solo appendendolo alla vecchia e alta trave di larice che ne aveva sorretti tanti e forse troppi.
Avevamo fatto un buon lavoro di squadra e un bello spuntino con un paio di buone bottiglie ci stava aspettando nel locale animato da altri avventori, di cui molti ci guardavano curiosi di conoscere il perché di tanta agitazione.
Dopo molto, i miei compagni se ne andarono ed io, zoppicando, mi recai in bagno per disinfettare la mia ferita.
Era profonda e incominciava a farmi male, mi si stava gonfiando la gamba ma, mi ripetevo, forse era giusto così.
L’indomani, già molto presto, ci furono diverse persone che vennero a vedere il bel cervo e, verso mezzogiorno, arrivarono anche due guardie forestali per le misurazioni di rito.
Era ora di pranzo, avevo fegato e cuore da cucinare in abbondanza e chiesi loro di farmi compagnia.
Erano lì con me in cucina, mentre, con un coltellaccio, affettavo il cuore di quello splendido animale e ripensavo a tutte le volte che lo avevo rincorso e ammirato in un pericoloso gioco; si parlava di com’era andata la caccia, della fucilata, del recupero, quando, a un certo punto sentii uno stridere di ferro contro ferro, mi fermai con il coltello ancora affondato nella carne e, con la punta, rovistai in quell’enorme cuore fin quando, con sorpresa, vidi cadere la pallottola informe sul tagliere.
“E’ stato un buon colpo, - mi dissero, - non se n’è nemmeno accorto!”.
“Sì, - risposi, - non ha sofferto, è stata una buona cosa.”
Poi mi spostai zoppicando, con gli occhi bassi e già pieni di nostalgia, in cerca del burro...

Angel de Larezila