(tratto dal libro di Angelo “E poi il fuoco”)

Un po’ di polenta avanzata a mezzogiorno ci può essere utile, ma questa è niente in confronto a quella che tante volte avanzava dopo il giorno di ferragosto, ricordo che in quell’occasione c’era sempre una straordinaria agitazione, di regola era il giorno più affollato di tutta l’estate.
La polenta non veniva cotta in cucina ma in una baita sopra il rifugio dove io e mio padre, per l’occasione facevamo rivivere il vecchio paiolo di rame, quello che ai vecchi tempi veniva usato per fare il formaggio. Era enorme, quasi ci potevo stare dentro per intero! Non saprei dire quante ore ci volevano per far bollire una così grande quantità d’acqua sul fuoco libero del grande caminetto. A me tutto di quella polenta sembrava fuori misura: il paiolo, l’acqua che non bastava mai per riempirlo e che sembrava non voler mai bollire, chili e chili di farina e la fatica enorme nel mescolarla; quanto lavoro ci metteva mio padre per cuocere a puntino quell’enorme polenta che doveva servire per più di cento persone!
E finalmente dopo numerosi assaggi, puntualmente a mezzo giorno, la polenta era pronta: quello era il momento di maggiore agitazione. Venivano in aiuto persone più forti ed esperte di me per trasportare il tutto fino in cucina ma il momento più difficile era quando i miei genitori dovevano rovesciare il paiolo, con un fulmineo colpo, sul tavolo di cucina, visto che non esistevano taglieri che potessero contenere tanta quell’onda gialla di polenta.
Puntualmente venivo scansato dal momento che non poche volte qualcuno ci aveva lasciato la pelle delle mani in mezzo a quella gustosa e bollente pietanza.
A quei tempi il telefono non esisteva ancora e di conseguenza nemmeno le prenotazioni e così si cucinava ad occhio basandosi molto sull’affluenza dell’anno prima e sulle previsioni del tempo fatte in casa spesso del tutto inaffidabili, bastavano, infatti, poche gocce di pioggia già durante la mattinata per non vedere più anima viva ed allora le uniche cose che vedevo erano: la disperazione e la malinconia negli occhi di mia madre, la felicità del nostro insaziabile maiale ed il panico mio e dei miei fratelli al solo pensiero di dover mangiar polenta per giorni e giorni, a colazione, pranzo e cena!
Oggi invece quella avanzata la usiamo per proporla in modo diverso sui piatti da portata, magari fritta nel burro oppure come ora la tagliamo a pezzetti insieme al formaggio e la uniamo alle uova.»
Caricai Annamaria di padelle e contenitori e ritornammo in cucina.
Il fuoco era scoppiettante e la piastra già calda.
«Bene – le dissi – la “polenta uova e formaggio” serviva quindi a pulire la dispensa dagli avanzi come un altro piatto classico il “grestel” con patate lesse tagliate a fette, carne avanzata con gran soffritto di cipolle.
Questo tipo di pietanze, in quanto piatti unici, erano già sufficienti ma, spesso, venivano accompagnati da un po’ di minestra d’orzo che veniva mangiata come ultima pietanza perché serviva a mandar giù il tutto. »
La guardavo indaffarata mentre mescolava la polenta col quel grembiule blu tirolese, così lontano dal suo abbigliamento abitualmente ricercato e femminile, era proprio simpatica.
« Lo sai, almeno, come si fa la polenta? »
«Sì. - Mi rispose - Prendi dell’acqua, la metti sul fuoco, poi aggiungi farina e mescoli per un pezzo. »
«Ci sei quasi ma l’acqua deve bollire e poi il sale, senza, è immangiabile, poi la farina e incominci a mescolare con un frullino evitando di scottarti, quegli spruzzi sono micidiali, è com’essere sopra un vulcano. Poi copri il tutto con un coperchio anche per evitare di sporcare tutto e lasci cuocere a fuoco lento, più tardi quando è già meno liquida puoi incominciare a mescolare con il mestolo di legno, mia madre n’aveva una lunga serie, di varie misure, a secondo del paiolo che adoperava, e molti li rompeva cercando di colpirci quando ne combinavamo una delle nostre che lei riteneva di dover punire.
Continui a mescolare aggiungendo piano dell’altra farina ma senza esagerare, poi la porti a cottura, non meno di un’ora, raramente si usava del burro o dell’olio per insaporirla.
Il paiolo è sempre di rame ed un po’ di legna di pino cembro per profumarla è di rigore ma, a dirla tutta, questa del pino cembro è una balla che mi piace raccontare per far presa sui miei clienti.
Ai miei clienti decanto sempre la polenta e mi fregio pure di essere stato insignito per la qualità della stessa a concorsi inesistenti e li invito a consumarne in quantità, concludendo la mia filippica con la mia solita battuta, simpatica ma anche vera: - Mangiate polenta, che è sulla polenta che si riesce a guadagnare un soldo!
A me piace dura, a mio padre piaceva molto dura, ai miei fratelli tenera, dipende dai gusti. In montagna, quando si faceva il fieno, da dura che era, si poteva levarla dal paiolo e versarla su una mano, non scottava ma io non ho mai avuto il coraggio di provare. Poi si tagliava con il filo o con un coltello di legno e si passava da una mano all’altra fino a formare un grosso cetriolo e si mangiava così, con le mani, a grossi bocconi: in una mano la polenta, nell’altra del formaggio o del salame.