(tratto dal libro di Angelo “E poi il fuoco”)

Noi eravamo contadini ed il formaggio, in estate, era fatto in casa e veniva proposto in tutte le salse, come si suole dire, ma, come si suole dire, la sua morte era fuso e versato sopra una calda montagna di polenta. L’inverno il latte veniva portato al caseificio e poi barattato in numerose forme di formaggio per uso estivo, curato e stagionato dai miei in cantina.
La cantina era quella di mio nonno materno e lì le forme venivano posizionate su assi di legno e periodicamente lavate, bagnate e salate, oltre ad essere sempre accuratamente controllate affinché nessuna mosca le potesse intaccare.
Questa cantina è stata utilizzata fino a non molti anni fa e quando la forma che si stava utilizzando al rifugio stava per finire, uno dei miei fratelli veniva spedito frettolosamente a piedi in paese con un lacero e bisunto zaino per recuperarne una nuova.
Le raccomandazioni si sprecavano: - Prendi quella in fondo alla cantina, a sinistra, l’ultima in alto. Guarda che se sbagli devi tornare giù a cambiarla! -
Andare in paese a piedi voleva dire cinquanta minuti per scendere e più di un’ora e mezzo per risalire, su una ripida strada sterrata.
E così la nuova forma di formaggio veniva stoccata nella cantina del rifugio, in un vecchio armadio in legno, costruito da mio padre.
Il mobile era stato realizzato a regola d’arte contro l’attacco delle micidiali mosche, ma quelle maledette sapevano che il momento propizio per infilarsi dentro era quando veniva aperto e così si posizionavano sul bordo delle ante ed aspettavano pazienti che qualcuno venisse per il quotidiano rifornimento.
Era panico totale quando mia madre scovava la temibile e vorace mosca dove non doveva essere.
Una volta scoperta, la vigliacca veniva massacrata con mille imprecazioni proprie di uno scaricatore di porto non soddisfatto della prestazione di una donna prezzolata, ma ormai era troppo tardi: la mosca aveva già depositato le uova in superficie, e queste, con una rapidità straordinaria si sarebbero presto trasformate in temibili vermi infestanti e impossibili da debellare in modo definitivo.
A quel punto vedevo partire mia madre con un insolito coltellaccio, lo usava a mo’ di bisturi e come un esperto chirurgo esportava l’ampia zona già in cancrena.
La forma appestata veniva poi girata e rigirata per vedere se c’erano altre zone infette, ed infine lavata con acqua ed aceto e, sulle zone a rischio, frizionata con del pepe nero in polvere.
Con la parte esportata, mia madre risaliva in cucina.
La vedevamo trafficare con quei pezzi di formaggio, tutti in movimento ed in quel momento noi di casa sapevamo già cosa avremmo mangiato quella sera.
Tutti i vermi più vistosi venivano asportati e finivano nel secchio del pasto del maiale, il resto del formaggio, in una vecchia padella in ferro, dove veniva fuso con l’aggiunta di qualche uovo per poi finire a tavola con l’immancabile polenta.
E così per anni, mia madre dovette battagliare con le mosche del formaggio e noi, inevitabilmente mangiare polenta e formaggio fuso, fino al giorno in cui un buon uomo, medico condotto a Moena, grande amico di mio padre, ci regalò un piccolo, scomodo ma splendido frigorifero, funzionante a gas, visto che il rifugio non era dotato di corrente elettrica.