(tratto dal libro di Angelo “E poi il fuoco...”)

1.

...Il lavoro mi aspettava.
Il mio rientro nel locale portò un po’ di sconquasso tra miei collaboratori, non che incutessi loro terrore, anzi, ma non si sentivano a loro agio seduti, anche se stanchi, quando c’erano ancora molte cose da riordinare.
Nel mio rifugio oggi è diventato tutto più comodo: l’acqua arriva da tutti i rubinetti compresi quelli nei bagni, la luce, schiacciando un interruttore, viene emanata da un enorme generatore silenziato; tutti i rifornimenti vengono portati con camion dalle svariate ditte da cui mi rifornisco; è però altrettanto vero che, comunque, ci sono un’infinità di incognite nella gestione di un rifugio.
Mi diressi al bagno, non nel mio personale, ma nel bagno usato dai clienti, l’uso anche io e se va bene a me, schizzinoso come sono, deve essere sicuramente a posto.
Del resto sono un sostenitore del detto: “se il cesso è pulito, anche il locale è pulito”.
Mi venne in mente il vecchio cesso, il caro, vecchio cesso a tonfo, se lo avessi ancora farei pagare il biglietto non per usarlo ma solo per visitarlo!
Grande scala dall’interno ed una dall’esterno che portavano al ballatoio in legno ed in legno anche una poco sicura ringhiera; il tutto per arrivare ad un minuscolo sgabuzzino dalla rudimentale porta in assi verticali in abete rosso consumate dal sole con chiavistello in legno, semplice da usare, che ti chiudeva fuori il mondo; di fronte alla porta un’ampia finestra senza vetro, elementare, economico e sempre funzionante sistema di aerazione e, sulla destra, spessa panca di larice con buco.
A tal proposito, non ho mai capito come mai i miei avi, con tutti quei bambini ed includo anche mio padre, abbiano optato solo per un enorme buco e non anche per uno più piccolo, per piccoli deretani da bambino, come avevo visto in altre vecchie case.
E così c’era solo quello di buco, sovradimensionato, buio ed enorme… L’alternativa era scendere nel prato o farsela addosso!
Sulla stessa panca, sulla sinistra, una risma di pezzi di quotidiani o settimanali tagliati a misura, direi quindici per quindici, oleosi e poco utili per lo scopo, però passavamo il tempo a leggerli, anche se una parte dell’articolo, molte volte, te lo dovevi inventare poiché era già stato usato per altri poco nobili scopi.
Quando la seduta si prolungava e se le notizie non ti piacevano o non le condividevi potevi, con grande comodità, mandare tutti letteralmente a cagare, gettando tutto giù in quel tubo lungo tre metri, fatto di assi, e dopo il gran “splash” finale, tutto finiva e tornava il silenzio!    
Sotto c’era una vasca a tenuta stagna, pure questa in legno che in autunno, o in ogni caso quando era piena, doveva essere svuotata e, considerando che a quei tempi niente poteva essere sprecato, il tutto veniva ovviamente usato come ottimo concime nel prato vicino.
Lavoro ingrato, questo, riservato alle mie belle sorelle: per mezzo di una vecchia marmitta, con i manici trapassati da un lungo bastone, riempita quasi fino all’orlo, niente poteva essere perso, veniva trasportata in due a forza di braccia fino al prato e lì rovesciata.
Non di rado una delle mie sorelle scivolava e si riempiva di quell’odioso e puzzolente liquido ma, come diceva mio padre, non c’era problema: l’importane era che l’incidente avvenisse nella zona da concimare e che niente andasse perso.
Al riempimento della marmitta ci pensava mio padre.
Si era costruito un enorme cucchiaione con un manico di badile a cui era fissato un vecchio elmetto della prima guerra mondiale e a chi chiedeva che elmetto fosse rispondeva come se fosse scontato: - Talian, Talian, vesto che l fosse Todesch? -
Le mie sorelle odiavano quel lavoro. Dopo anni mi confidarono che non era la broda infame che le terrorizzava piuttosto il farsi vedere dai loro già numerosi spasimanti occupate in quell’ingrato lavoro ma, al di là di tutto, l’importante era che, alla fine, il prato fosse ben concimato. 
Solo una volta vidi mio padre tremendamente alterato e fu quando, in mezzo a quella sbobba maciullata e puzzolente, ritrovò i suoi stivali tedeschi totalmente corrosi.
Non so dove li avesse presi, forse era frutto di un baratto, ben riuscito, con qualche ufficiale tedesco durante la seconda guerra mondiale oppure un regalo di qualche amico per andare a caccia.
Avevo pochi anni ma ricordo quanto li avesse inutilmente cercati.
A quel punto la conclusione fu che un ubriaco dispettoso e rozzo li aveva buttati in quel profondo buco.
Da bambino avevo una paura terribile di quel buco orrendo, avevo il terrore di caderci dentro e come se questo non fosse già abbastanza, i miei numerosi fratelli, non di rado, quando litigavamo, mi minacciavano ripetutamente che mi ci avrebbero buttato loro dentro!
Ora è tutto cambiato: il cesso a tonfo non c’è più, l’ultimo l’ho visto durante un viaggio in Russia con mio fratello maggiore Vigilio.
Fu proprio un tuffo nel passato e una vera festa rivederlo così, uguale al nostro, ma forse chi lo aveva costruito amava di più i bambini: quello di buchi n’aveva due!
Al rientro in Italia, non vi dico come mio fratello fosse entusiasta della nostra scoperta, al punto di riuscire a convincere i suoi amici, o almeno era questo che lui credeva visto che ormai erano abituati alle sue storie di viaggi, che anche i condomini di vecchia data usufruivano di tali servizi, ovviamente comunicanti tra loro e che chi abitava ai piani bassi sicuramente aveva in dotazione degli ombrelli per evitare sgradite sorprese che cadevano dall’alto.
Poi tutto finiva in una fragorosa risata...

2.

… Da sempre, in casa nostra, c’erano state le mucche, ed io ero affascinato dalla nascita dei vitelli: sapevo che il vitello che coccolavo, appena nato, il giorno dopo prima era nella pancia della mucca ma non sapevo e non capivo come faceva ad uscire e mia madre mi aveva quasi convinto che uscisse dalla bocca.
Ogni anno, quando s’avvicinava il periodo dei parti delle mucche, lo capivo per l’agitazione che regnava in casa, chiedevo inutilmente di poter assistere.
Gli assicuravo che sarei stato in un angolo senza disturbare, in silenzio, ma mia madre non sentiva ragioni e con mille scuse puntualmente mi allontanava.
Il primo parto che ho visto è stato quello di una femmina di capriolo in una radura ma, sfortuna, ero troppo lontano e l’erba era alta e, così, persi anche quell’occasione per scoprire lo straordinario segreto.
Tutto questo m’incuriosiva e né più né meno, come tutti quei bambini che quando si accorgono di qualche mistero e di qualche bisbiglio a mezza bocca da parte dei grandi non fanno altro che drizzare le antenne così anch’io mettevo in funzione dei radar al posto delle orecchie.
Non poche volte, vidi mia madre veramente disperata per una mucca che aveva abortito; era una tragedia in casa e non si parlava d’altro per giorni e giorni: - La à trat demez l vedel- che letteralmente dal Ladino “ha buttato via il vitello”.
Io non capivo questo gesto infame, di una mucca che buttava via il figlio che aveva in pancia.
Avevo otto o forse nove anni, era il tempo del carosello e poi a letto, non avevo mai assistito a qualche spettacolo che mi potesse far capire come funzionasse la cosa ma sempre speranzoso non perdevo occasione, volevo sapere e nessuno mi aiutava.
Nel frattempo, ogni giorno ero sempre più affascinato da una bella ragazza che possedeva una baita poco distante dal rifugio: capelli lunghi neri, un bel viso espressivo e sorridente, gambe lunghe e gonna corta e quando prendeva il sentiero che era in salita quelle lunghe gambe si scoprivano ancora di più: era un gran bel vedere per me ma anche per tutti i giovanotti che frequentavano il rifugio.
Andava sempre in quella piccola baita con il suo moroso e quando, dopo una decina di metri sparivano dietro il crinale, i complimenti e le considerazioni, da parte di quei bulletti sfortunati, si sprecavano: facevano a gara ad elencare tutte le qualità che aveva quella bella donna e tutto quello che avrebbero voluto fare con lei, ovviamente incuranti di me che li stavo ascoltando con i miei soliti “radar”.
Ovviamente non capivo niente ma una frase, in particolar modo mi aveva colpito: - I va a fèr popes. -
Alla sera, controllavo sempre con molta attenzione quando ripassavano dal rifugio ma tornavano sempre soli, senza “popes”.
A quel punto dopo molti appostamenti, ricordando le parole di mia madre che parlava delle mucche che buttavano via i vitelli, feci un’elementare conclusione: anche loro facevano i “popes”e poi li buttavano via!
Un giorno, passando nelle vicinanze della baita, con le mie inseparabili mucche, mi misi a cercare i bambini che avevano gettato: ovviamente vana fu la ricerca ma non volevo arrendermi e l’ennesima elementare e più ovvia conclusione fu che la famelica volpe se l’era mangiati tutti!

Non capivo perché si doveva essere in due per far bambini e solo per caso, un giorno, cominciai a capire il perché di quel “certo senso di piacere”… Meglio tardi che mai!...

3.

… Da bambino scendere in paese per la fine della stagione estiva, “el desmontèr”, era per me sempre una grande felicità: basta con le lunghe ore di solitudine al pascolo, non più andare a mungere e pulire le bestie nella stalla, e poi finalmente ritrovavo i miei amici.
L’unico lato negativo della cosa era dover riprendere la scuola!
La preparazione delle masserizie, “la mesa”, era molto laboriosa per tutti noi ma in particolare per mia madre.
S’iniziava molti ma molti giorni prima della data concordata con il solito carrettiere, sempre lo stesso ogni anno.
Tutto doveva essere pronto per quel giorno sperando che non piovesse se no tutto si complicava ancora di più.
Dei bauli in abete, già pesanti, ancora vuoti, venivano riempiti con la biancheria più preziosa, poi con vestiti e coperte, i piumoni invece venivano messi in sacchi di iuta o nelle federe dei cuscini ed il resto in scatoloni di cartone.
In casse di legno venivano riposte le padelle e tutti gli alimenti che disgraziatamente erano avanzati, chiaramente più ce n’erano, più la stagione estiva era stata poco redditizia.
Il tutto, poi, veniva ammassato al piano terra, pronto per il carico.
La mattina presto arrivava il carro e c’era il rito del caffè, durante questa pausa mio padre e il carrettiere, organizzavano il tutto, ogni cosa aveva un certo ordine di carico e tutto doveva svolgersi ordinatamente, con grande efficienza, ma soprattutto senza perdere tempo.
Il carro veniva spostato davanti alla porta della stalla, sì della stalla, perché il primo ad essere caricato doveva essere il maiale ed ecco il motivo per il quale tutto doveva essere fatto nel minor tempo possibile, proprio per non far soffrire la povera bestia, chiusa in una stretta cassa di legno.
Il caricare o meglio il fare entrare un enorme maiale in una cassa stretta e buia era sempre un’impresa, speravamo sempre nella sua buona indole e solo in casi rarissimi, con un pezzo di pane in fondo alla cassa, l’ingenuo, entrava senza protestare.
Nella maggior parte dei casi, invece, i nostri maiali sono stati dei veri e propri animali da corrida, non si lasciavano convincere né con il pane né con le patate ed allora era lotta dura!
Io mi divertivo tanto, troppo piccolo per partecipare attivamente, era uno spettacolo unico, più il carico risultava difficile, più altre persone accorrevano per aiutare, più io mi divertivo!
La povera bestia, quella di indole non troppo giusta, veniva tirata per le piccole orecchie e se non si spostava veniva spinta da dietro, in quelle grosse e pesanti cosce, i nostri futuri speck, ma spesso non c’era niente da fare.
Allora veniva letteralmente spinto dentro facendo leva con un asse tra le sue gambe posteriori, le imprecazioni si sprecavano specialmente se tentava di mordere, ricordo, quando ci era quasi scappato prendendo la strada, le urla di mia madre che mai riuscirono a superare quelle del maiale, stridule e dai toni altissimi… Fu in quell’occasione che qualcuno consigliò di usare la doppietta di mio padre, ma per fortuna non servì e rimase dietro l’armadio.
Fatto prigioniero il maiale, il più era fatto.
Braccia forzute posizionavano il non ancora tranquillo animale sul piano di carico: il maiale doveva essere il primo sul davanti altrimenti, scendendo, con i suoi liquami avrebbe sporcato tutto il carico, cosa non nuova, con grande arrabbiatura di mia madre.
Tanti anni prima, mi raccontava mio padre, il maiale, molto più piccolo e magro visto che i clienti erano pochi e gli avanzi ridotti all’osso, veniva, se necessario, tenuto ulteriormente a stecchetto e poi veniva liberato ed invogliato a seguire il secchio con l’ottimo pastone fino a Moena.
Non so chi dei miei avi fosse addetto a quell’orrendo lavoro ma doveva essere estremamente tenace e paziente per sopportare quel tragitto di ore ed ore.
Il carico dei bauli e di tutto il resto era molto veloce, tutti davano una mano, e il maestro carrettiere doveva, con ottimo occhio ed esperienza, incastrare il tutto.
Ultimi ad essere caricati erano le preziose galline e d i conigli.
Le prime, era un gioco prenderle e infilarle nella bassa cassa fatta di fini bastoni incrociati perché erano già state lasciate, preventivamente, rinchiuse nel pollaio.
I conigli, invece, era tutta un’altra faccenda: erano tutti liberi e toccava a me catturarli, del resto ero il più veloce e conoscevo i loro innumerevoli nascondigli, li acchiappavo con dei tuffi da grande portiere e mi infilavo nei punti più irraggiungibili lì attorno e rimediavo spesso grandi morsi e graffi ma, non c’erano ma che tenessero, quello era il mio compito.
In fondo non ne erano rimasti poi tanti, erano molti, infatti, i pranzi a base di coniglio dei clienti e non solo, viste le visite fuori programma della volpe e del gatto selvatico!
Qualcuno mi sfuggiva sempre e non veniva caricato alla nostra partenza ma, ci avrebbe pensato mio padre, al ritorno da qualche battuta di caccia, o qualche suo amico per fare contenta la moglie dopo una stagione venatoria andata male.
E così, galline e conigli venivano caricati sul davanti, sopra la cassa del maiale.
Verso mezzogiorno, dopo un lauto spuntino, si partiva o meglio partiva il carro con mia madre seduta sul davanti vicino al carrettiere e qualche mia sorella al seguito.
Mio padre doveva chiudere casa e poi, a passo veloce, seguire il carico, per poter arrivare a Moena per dare una mano a scaricare.
Noi invece, intendo io insieme a qualche fratello, dovevamo accompagnare le mucche a valle, compito non sempre facile dal momento che il più delle volte non avevano proprio nessuna intenzione di lasciare gli alti pascoli di montagna anche se l’erba era ormai quasi completamente secca e poco abbondante, forse intuivano che sarebbero rimaste rinchiuse, per un minimo di otto mesi, in una buia ed umida stalla.
Rarissime volte, la vecchia vacca “mora”, che viveva con noi da moltissimi anni, capo branco, titolo guadagnato per anzianità sul campo, usciva dalla stalla e spontaneamente si dirigeva verso valle, seguita da tutte le altre, per civetteria, mia madre l’addobbava con rami d’abete e fiori di carta tra le corna: la bestia aveva già sentito che c’era aria di neve e così puntualmente dopo qualche giorno nevicava.   
La “mora”, in una vera stalla produttiva, non avrebbe dovuto più esserci da molti anni, troppo vecchia per dare molto latte e per generare vitelli, ma mio padre, sentimentale come sempre non se ne voleva sbarazzare, era stata troppo utile per la vita di tutti noi, ed era considerata l’undicesimo componente della nostra famiglia.
Quando arrivavamo a Moena con le mucche, il carro era già vuoto; legate le bestie nella stalla e liberato il maiale nel porcile, se per noi, uomini di casa, il lavoro più gravoso era finito, per le donne iniziava: c’èra tutto da lavare e riordinare nel vecchio appartamento, dato in affitto durante la stagione estiva ai “Scïores”.
La prima cosa che mia madre sistemava in un posto sicuro era una cassetta di legno scuro rinforzata da delle strisce in lamiera. 
Lei per tutto il tragitto l’aveva tenuta stretta in braccio, conteneva tutte le cose preziose di casa e l’incasso della stagione.
Era sempre chiusa a chiave e nascosta nella loro camera, mai vista aperta ma, vi posso garantire, che di cose preziose e di soldi ne doveva contenere ben pochi, visto che mio padre, dopo solo pochi giorni, doveva cercarsi un lavoro da falegname per continuare a sostentare la famiglia.
La ricchezza maggiore e certa erano le mucche, qualche coniglio, le galline ed il maiale che sarebbe stato immolato in occasione della sagra dei Santi, con gran festa per tutto il rione ed in particolare per noi bambini.
Il ritorno al rifugio in primavera era caratterizzato dallo stesso immane lavoro, solo il carico del maiale era più semplice poiché pesava ancora poco.
Ah che vita! Oggi, con due carichi di fuoristrada, in un paio d’ore, tutto è a posto, caricato e scaricato e se ci si dimentica qualche cosa, si può dire: - Aspetta un momento, faccio un salto a prenderlo! -

Mezz’ora di macchina ed ogni cosa è sistemata eppure, nemmeno tutte queste comodità ci rendono più felici! ...